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In fondo, l’anima

Il comportamento degli animali, differentemente da quello degli uomini, mi ha sempre stupito.
Credo sia per questo che ne “La ferocia del coniglio” mi sono dilungato a raccontarne alcuni tratti per bocca di un etologo. Anche se so, che in fondo, non si può mai sapere tutto di loro.

PRIMA
A Natale di qualche anno fa volevo adottare un cucciolo di gatto per Simona, la mia fidanzata, per farle compagnia durante le mie prolungate assenze notturne per lavoro o giù alla bisca, per una seduta di poker. Pensavo di sbrigarmela al volo. Invece girai cinque province, tra gattili, negozi, allevamenti. Niente da fare, Natale per le nascite dei gatti non è periodo. Fu giusto all’ultimo negozio rimasto che ne trovai una, una splendida Norvegese delle Foreste. Micia. Una botta di euro da mal di stomaco.
Micia, come già le precedenti gatte di Simona, dormiva con noi, tra i due cuscini. Ce la portavamo in giro e lei lì, al passo. Pure in acqua, giuro. Il veterinario insisteva per sterilizzarla. E la maternità? “Non lo sa? Loro non hanno istinto materno prima di restare gravide. E poi, via, in fondo, è solo un gatto.”…

 
Sarà che dei medici non mi fido, rifiutai il consiglio. Un mese dopo, però la Micia iniziò a vomitare qualsiasi cosa e a perdere peso. Tornammo dal veterinario. E lì capii che su di lui non mi ero sbagliato: “Alimentazione sbagliata.” Ci prescrisse delle flebo. Un genio. Il giorno dopo la Micia era pelle e ossa. Respirava a fatica, ma continuava ostinata a fare le fusa sul cuscino. Come se sentisse di morire e volesse andarsene così, incollata a lei, rannicchiata sul collo. Simona volle portarla in un pronto soccorso per animali.
“Che brutta bestia, ve l’hanno venduto malato. Di sicuro ha un cancro.” Questo l’impatto col medico. La lasciammo lì la notte per gli esami. Il giorno dopo scrisse la diagnosi: reni non funzionanti. Ma non era un cancro? Alzò le spalle: “Guardi, questo muore in un paio di giorni”. Ci diede una ricetta a base di ormoni e ce la fece riportare in fretta a casa dopo un altro salasso di euro.
La sera dopo arrivo tardi. Simona, che per fortuna fa l’infermiera e non il veterinario, ha letto gli esami: “Sono i sintomi di un’occlusione. Corriamo a un altro ps?” Piange a dirotto. “Sali in macchina.”
Cinquanta chilometri di notte. Agli altri medici basta una radiografia. Ha ragione lei. Ha un tappo nello stomaco. Chiamano il chirurgo d’urgenza e la salvano per miracolo.
Chiamo il veterinario precedente: come si fa a non riconoscere un’occlusione? “Mica è colpa mia”.
“Ah, no?”

E’ facile quando fai il cronista occuparti dei guai altrui, meno dei tuoi.

Ti senti a disagio. Vuoi un confronto regolare. Allora lo cito davanti al giudice di pace. E’ tutto scritto, carte, referti, ricette: prove materiali, giuridicamente parlando, penso.
Invece no. La sentenza, inappellabile, recita che la colpa non è del medico che ha sbagliato la diagnosi, ma del gatto che si è mangiato il tappo.
Nientemeno.
Mi sembra un film di Sordi. Niente di cui stupirsi. Andiamo in Cassazione?
“Ma perché tutti sti soldi in cause? – mi fa il mio avvocato- In fondo, è solo un gatto.”
Già.

DOPO
Alla Micia troviamo un compagno di giochi. Un randagio tigrato abbandonato su un albero. Ringhio. “Ma è pazzo? -mi dice l’ennesimo veterinario, dove lo porto a sverminare – Le rovinerà la razza.”
“Ma vai a cagare.”
Prendiamo una villetta in periferia. Ora possono giocare all’aperto. Di giorno fuori. Di notte, tutte le notti, in casa. Simona partorisce un bimbo che chiamo Manuel, come il protagonista dei miei romanzi, ben sapendo che probabilmente da grande come ringraziamento mi rifilerà una coltellata. Torna a casa a capodanno.
E la mattina, al risveglio, accade un fatto che non dimenticherò mai.

Per capirci, Simona ha un’inquietante passione per i peluche, che a me ricordano molto gli horror degli anni ’80. Però nel tempo, per farmi perdonare le rientrate notturne, gliene ho regalati una cinquantina: il che la dice lunga su quanto lei si innervosisca facilmente.

Comunque orsi, cani, elefanti, giraffe, uno zoo di stoffa stipato nella cameretta.

Quella prima mattina Manuel frigna che Dio la manda e mi tira giù dal letto. Apro la porta. La Micia salta dentro al volo. In bocca ha un peluche. Lo adagia lì, nel lettino.
Fra cinquanta pupazzi ha scelto il peluche di un gattino. L’unico. Lo appoggia e si mette addosso a Manuel. Per tre mesi non lo molla più, tra leccate e fusa. Ogni mattina è lì, con quel pupazzo tra i denti. E poi su di lui, per scaldarlo.
Mi segno su un taccuino di insultare nuovamente il primo veterinario che si era espresso sull’istinto di maternità.

E sette mesi dopo tocca finalmente anche a lei. Partorisce il giorno di Italia-Francia, mentre Grosso sta per tirare l’ultimo rigore. “C’è quasi, c’è quasi…” urla Simona dalla stanza, dove ha piazzato la cesta. Urlo anch’io, ma davanti alla tv. Gol.
Vorrei chiamarlo Grosso, in omaggio. Ma siamo indecisi se sia maschio o femmina. Alla fine Simona propone un nome neutro, Sissy. Devo vaccinarlo. “E il padre chi è?” mi fa il quinto veterinario cui mi sono rivolto.
“Guardi, non lo so, non è che la seguo. E’ aperto, esce e va…”
“Ma è pazzo? C’è l’Hiv felina, non è pericolosa per l’uomo, ma il gatto rischia di morire.”

Vorrei far presente che il rischio più grande l’ha corso da un suo collega. Vorrei anche dirgli che quello non è un peluche della collezione di Simona di cui disporre a piacimento e che al gatto di crepare di Hiv non gli importerebbe nulla. Vorrei dirgli infine che la natura segue altri percorsi. Ma sintetizzo il tutto: “Ha dei preservativi?”
Mi guarda schifato: “Contento lei. Guardi che, in fondo, è solo un gatto”.

INTERMEZZO
La Micia ha partorito ancora, era la giornata internazionale del gatto. Questa volta i piccoli sono cinque. Padre, ovviamente, ignoto. Ma otto, dicono tutti, sono troppi, anche per una villetta. Giusto. Selezioniamo alcuni vicini a cui regalarli. Con noi resta solo Silvestro, il più piccino. E vedere giocare quattro gatti con un bimbo di un anno, in maniera paritetica, senza graffiare, senza soffiare, senza rabbia, non ha davvero prezzo. Specie per Manuel, che con Silvestro si rotola tutto il giorno.

Ma il sesto veterinario che visita la Micia, non ammette repliche: “Alla prossima gravidanza, rischia la pelle”.
Simona sgrana gli occhi. E abdica. La sterilizzazione, dice, è meglio della morte.
Forse.

IERI

Ringhio è sparito da due mesi. Una notte, venti giorni fa, mi è sembrato di vederlo arrivare fino al cancello. Mi sono avvicinato, era lui. Ma è scappato, come terrorizzato. “Figurati, non era Ringhio. Ti pare che scappa?” insiste Simona. Due settimane fa però lo stesso accade con Sissy. Rientra una notte, accucciato sotto una siepe. Ci chiama miagolando piano. Trema. Non si alza nemmeno per andare alla sabbia. Resta nascosto sotto un mobile per tre giorni. La cosa mi lascia davvero perplesso. Che ha? – chiedo al settimo veterinario. “Mah, lo avranno picchiato, avrà fatto a botte. Non lo so. Chissà che gli passa per la testa. In fondo è solo un gatto. Avrà visto qualcosa.”

Non so cosa Sissy abbia visto prima, di sbagliato. E’ rimasto un mistero. So però cosa non avrebbe dovuto vedere ieri. Sono al telefono in giardino. Sento il rombo di un motore filare rapido. Troppo rapido per un paese. Almeno cento, centoventi. Poi una breve frenata, poi ancora, via veloce. Ho un brutto presentimento. Esco. Di corsa. Trenti metri.

Silvestro non aveva nemmeno sei mesi. Prima di addormentarsi si attaccava ancora alle mammelle. L’ultimo dei cuccioli. Stava sempre incollato alla madre. Che infatti è lì, con Sissy, sul ciglio della strada, a guardare la pozza di sangue. Ho preso il corpo e l’ho trascinato in garage. Il giorno dopo l’ho portato via.

Chi l’ha investito non si è nemmeno fermato. Lo so, avrà pensato che, in fondo, era solo un gatto. Già.
Ma, mi chiedo, l’espressione in fondo, che cosa vuol dire? E’ qualcosa che non si capisce o che non si vuol capire?

Di sicuro non l’avrebbe usata Konrad Lorenz, giusto per citare qualcuno che ne capiva davvero e che non mi faccia sentire eternamente un pazzo fuori dal mondo. Non l’avrebbe usata quando non riusciva a comprendere i suoi animali.

Ma, in fondo, cosa gli vuoi spiegare.

E infatti la Micia sono due giorni che dorme di fronte al garage. Come se aspettasse che esca, come in una veglia funebre, fate voi. Mangia poco, sta sdraiata tutto il giorno.

E io mi sento dannatamente in colpa, perché lei non lo sa, ma di figli non ne potrà avere più.

Simona, che talvolta mi pare creda in Dio, in un momento di rabbia ha invocato un’improbabile vendetta del Cielo. “Perché? I gatti non ce l’hanno un’anima?” sussurra tra le lacrime.

Che cazzo gli rispondo… ecco “bisognerebbe chiedere al veterinario.”
Sorride. Poi, per un attimo, ride.
Manuel ha sonno. Ancora non capisce, lo crede nascosto da qualche parte, come sempre. Lo porta su, a letto.
Io me ne sto fuori ancora. Una sigaretta tra le mani.

Tanto lo so.
Imprecare non serve.

Ho molta più fiducia nel comportamento degli uomini, che, a differenza di quello degli animali, difficilmente stupisce. Segue ritmi innaturali, fugge dietro illogicità, a volte raglia nel motore convinto di ergersi a capobranco. Ma è tutto matematico. Gli uomini piccoli, dicono alla bisca, si vedono nelle cose piccole.

Tanto lo so.

So che chi l’ha investito guidando così, si sveglierà. Capirà che quella convinzione era una mera illusione. Lo capirà, presto o tardi, incappando in un muro di cemento.
E allora mi sentirò come Silvestro. Lì, sul ciglio della strada. A fissarlo, senza alcun interesse. Alzando le spalle:

In fondo, era solo un uomo.

Edoardo Montolli


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