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REGGIO EMILIA - Si chiama Roberto Marchi, ha 37 anni, lavora a Parma e vive a Praticello di Gattatico. Lui certo non l’avrebbe voluto, a causa delle circostanze, ma è diventato un simbolo della battaglia contro la malasanità che colpisce gli animali. La sua Lea, una segugia di nove anni ammalata gravemente, è morta dopo un intervento chirurgico eseguito senza “la buona prassi chirurgica”, come attestato anche dall’Ordine dei veterinari, però non sanzionato come tale. Tuttavia Roberto non si è dato per vinto: ha voluto l’autopsia, ha affrontato il veterinario dell’operazione, ha raccolto una quantità tale di documentazione da diventare con Lea il testimonial più prezioso della campagna promossa da Arca 2000 per una nuova legge sui diritti degli animali in tema di sanità.
 
 Si è pure beccato una condanna per ingiurie del Giudice di pace di Parma, ma ha deciso di battersi in appello. Ha anche lanciato la pagina Facebook “Mai più come Lea”. E grazie alla sua tenacia la storia, rilanciata dal web e da diverse testate nazionali, sta facendo il giro del mondo.
Roberto, può raccontarci di Lea e della sua storia?
 E’ una storia che inizia inizia nel 2009. Avevo due cagnoline ereditate da mio padre: Lea e sua madre Terry, fra l’altro deceduta a quindici anni pochi giorni fa.
 Lea, una bellissima segugia italiana nera a pelo raso, di nove anni, comincia a non stare bene: la porto dal mio primo veterinario di fiducia, poi da un altro, anche lui di mia fiducia: entrambi diagnosticano un’insufficienza renale in fase avanzata. Mi dicono che non c’è niente da fare, che i reni sono compromessi irrimediabilmente e non resta che accompagnarla alla morte nel modo più indolore e dolce possibile.
Insomma, le suggerivano l’eutanasia?
 Sì. Una puntura per levarla da soffrire. Ma arrivato al dunque io non ci sono riuscito. Mi è mancato il coraggio di farla, quella puntura.
 Era una domenica, lo ricordo bene, ed ero disperato. Riesco a rintracciare un giovane veterinario di Parma che si dimostra molto disponibile e può ricevermi subito. Così carico Lea in macchina e vado da lui subito dopo pranzo.
Perché non si è rivolto ai suoi veterinari di fiducia?

Non li avevo trovati al telefono, e comunque volevo tentare il tutto per tutto per salvarla. Arrivo allo studio di Parma, dove il veterinario visita Lea e mi chiede di lasciarla da lui tutto il pomeriggio. Verso sera ricevo una telefonata: «Venga a prendere il suo cane». Arrivo alle sette e mezza. Il medico con molta sicurezza mi dice che deve intervenire chirurgicamente perché Lea ha la piometra, vale a dire una grave infezione all’utero causata da un accumulo di pus. E aggiunge: «Se si toglie l’utero malato il rene può rigenerarsi, e il cane potrà farti compagnia ancora per molto tempo».
Non mi sembrava vero, però avevo ben presente la diagnosi dei veterinari di mia fiducia ed ero anche preoccupato per l’età di Lea. Io rispondo: «Guarda che i miei veterinari hanno un’esperienza trentennale, e loro affermano si tratta esclusivamente di una questione di reni». Lui ribatte: «So bene quello che dico, l’ecografia moderna ha fatto passi da gigante. Lascia perdere questi medici legati a vecchie concezioni». A quel punto prende carta e penna e scrive che deve intervenire chirurgicamente. Con la sua firma e il timbro dell’ambulatorio.
Lei cos’ha deciso di fare?

Io volevo tentare il tutto per tutto per salvare Lea. Il medico di Parma, che ripeto era molto sicuro di sè, mi aveva dato una speranza. Mi aveva convinto. Così torno dai miei veterinari con la lettera del collega più giovane, e loro restano sbigottiti. Noi abbiamo fatto l’ecografia, dicono, ma non abbiamo visto alcuna traccia d’infezione all’utero. Tutta la storia a loro sembrava piuttosto strana.
Quindi?
 Decido di far operare Lea dal veterinario di Parma, ero un po’ in dubbio, ma spinto dalla disperazione ho accettato. Era il lunedì o il martedì. Dopo l’operazione il veterinario mi rilascia una descrizione dell’intervento e la prescrizione con le terapie post-operatorie. Inoltre mi consegna una fotografia dell’apparato genitale estratto nel corso dell’operazione, spiegando come e perchè era malato.
 Però finisce che Lea muore dopo due giorni. Voglio precisare che l’intervento non era stato la causa del decesso, tuttavia ha aumentato le sofferenze di Lea e ne ha probabilmente accelerato la fine. Può immaginare lo strazio per me, e anche la rabbia. A quel punto decido di chiedere l’autopsia: voglio vederci chiaro e sapere se avevano o no ragione i miei due veterinari. Il mattina successivo fanno l’autopsia, e io filmo l’intera operazione con la telecamera.
E cosa è risultato?
 L’utero di non era stato asportato integralmente, sulla parte rimasta non c’era alcuna traccia d’infezione, comunque era evidente che la fotografia fornita dal veterinario non aveva niente a che fare con l’intervento subito da Lea. A quel punto, per essere sicuro, invio una parte dell’organo all’Istituto zooprofilattico di Reggio. L’istituto procede alle analisi,accerta che non vi è traccia d’infezioni e lo certifica. Mette nero su bianco,
Qual è stata la sua reazione?
 Sono tornato insieme a due amici da quel veterinario che aveva aperto la mia Lea. Gli ho chiesto di scusarsi e di restituire i duecento euro di caparra, ma lui ha continuato a sostenere che l’infezione c’era. Dopodiché ho presentato un esposto all’Ordine dei veterinari di Brescia (dove era iscritto), esposto corredato da una relazione di parte del dottor Zatelli della clinica veterinaria Pirani di Reggio. Anche l’Ordine ha incaricato un perito esterno, un professore dell’Università degli studi di Milano.E sa qual è stata la decisione finale?
Dica.
 L’Ordine ha ammesso che l’operazione non era fatta bene, tuttavia ha archiviato il caso.
Scusi, com’è possibile?
 Non me lo spiego. Eppure l’accademico sostanzialmente condivideva quanto asserito dal mio perito: quell’intervento era il più pericoloso per il mio cane. Inoltre evidenziava che dalla documentazione non apparivano infezioni all’utero, che mancava “la motivazione clinica e scientifica per l’asportazione parziale dell’utero”, che vi erano discordanze fra quanto emerso dall’autopsia e la documentazione del veterinario. Eppure dopo tutto questo l’Ordine ha stabilito che il peggioramento delle condizioni cliniche del paziente non poteva imputarsi all’operazione. Inoltre ha stabilito che lo scambio di fotografie doveva essere considerato “un errore dettato dalla casualità”. Da qui l’archiviazione.
Sembra incredibile...
 Infatti il 5 novembre di quest’anno ho inviato una lettera all’Ordine di Brescia per far riaprire il caso. Comunque non mi ero fermato lì, perchè già il 28 ottobre 2009 avevo presentato una querela nei confronti del veterinario. Nel frattempo lui mi denunciava penalmente davanti al Giudice di pace di Parma per ingiuria e minacce.
E perché?
 Perché ho protestato quando sono tornato nel suo studio dopo la morte di Lea.
Tutto qui?
 Già. Il giudice ha stabilito che le minacce non esistevano, però ha ritenuto che la frase “mi hai aperto il cane per niente” avesse l’intenzione di dimostrare l’incapacità professionale del veterinario. Ha affermato che il dolore per la perdita del cane non la giustificava. Io naturalmente ho impugnato la sentenza davanti al Tribunale di Parma.
A che punto è la causa?
 Il giudice d’appello ha insistito per una conciliazione, poi si è astenuto dal processo. Resto in attesa dell’udienza, e sono fiducioso.
Lei è un uomo coraggioso. Qualcuno l’aiuta?
 Tante persone oggi condividono la mia battaglia. Ho ricevuto una lettera accorata da Michela Brambilla, ed anche da Grazia Francescato, ma ad aiutarmi è soprattutto l’associazione Arca 2000, che si batte contro la malasanità animale. Con loro ho aperto la pagina Facebook “Mai più come Lea”, a tutti chiedo di sostenermi con l’amicizia e un “Mi piace”. Ho già quasi 1.500, e aumentano giorno per giorno.
Di Pierluigi Ghiggini

  http://www.4minuti.it/citta/inchiesta-1-giustizia-lea-vittima-malasanit-animale-0059282.html


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